mercoledì 13 maggio 2009

Giuseppe Mazzini: «The fair maid of Perth (la jolie fille de Perth» (I, 5 - 1828)

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Vol. I, capp. 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26.

V.
THE FAIR MAID OF PERTH
( LA JOLIE FILLE DE PERTH ).
Roman historique par sir Walter Scott.

Indicatore Genovese, n. 6 del 12 luglio 1828.
Edizione Nazionale: vol. I, pp. 49-51.

[49] Dalle rupi dell’antica Caledonia discende a raggiugnere le sorelle sparse per tutta Europa, una vergine candida, pura, brillante di vita, bella di virtù, d’entusiasmo, e d’un animo, che non si pasce d’inezie. Noi raccomandiamo a chiunque ha cuore gentile, e mente non preoccupata, di contemplare la giovin fanciulla di Perth, e chi non potesse mirarla nella schiettezza delle vesti native, la rintracci sotto le galliche, che a lei diede l’infaticabile Defauconpret.

L’epoca dei fatti, che compongono questo nuovo Romanzo, risale al regno del terzo Roberto, sul finire del secolo decimo quarto; quando la Scozia presentava una immagine del caos nel conflitto degli elementi sociali, non ordinati dalla giustizia, non raffrenati da una energica forza. La prepotenza feudale giganteggiava da’ suoi cento castelli sulle inermi città. I signori, briachi d’ignoranza, e d’orgoglio, non riconoscevano altra autorità, che il proprio capriccio, e affidavano il maneggio dell’opre nefande a masnade di sgherri, nati al delitto, pronti sempre a vender l’anima, e il braccio a chi potea dare in contraccambio protezione, e mercede. Né valea tutela di leggi, perché i magistrati, che dovean vegliarne [50] l’esecuzione, eran per lo più timidi, o compri. La possanza regale anch’essa impunemente vilipendeasi, dacché i Principi, vacillanti, ed incerti, non volean nimicarsi coloro, che potean difenderli dalle invasioni straniere. Quindi tumulti frequenti di popolani, che, tratti all’estremo, sorgevano a vendicare da sé gli oltraggi, e lo spregio; le opinioni dei Wicleffiti aggiungevano esca alla divisione, ed allargavano il campo delle persecuzioni. – Il culto illimitato, che tributavasi alla bellezza, e pochi canti di trovatori eran l’unico raggio, che illuminasse quelle tenebre di rozzezza, e di crudeltà, perché l’amore, e la poesia han vita eterna quaggiù. Ma né l’alito della rosa basta a proteggerla sempre dal sozzo verme, e sovente anche il fiore della beltà contaminato era dalla superba licenza de’ giovani signori.

Triste quadro davvero! – Ma comune un tempo a tutte le genti, e perciò scuola d’osservazioni, e d’insegnamenti a quei, che studiano nel passato, come si guidi al meglio la razza. – L’autore fe’ dunque scelta opportuna, benché difficile per la confusione dei fatti, e per la scarsezza degli storici monumenti. La Scozia non ebbe cronicisti, che tardi; Major, Ettore Boezio, e pochi altri appartengono al secolo XVI; le storie, ch’essi composero, non eccettuato Bucanano, benché più celebre, sono intaccate di quella credulità, ch’è retaggio di tutti i primi narratori. Lo Scott superò, ci pare, gli ostacoli in guisa degna di lui; profondamente versato nelle antichità della sua patria, abile a trarre conseguenze acute dalla menoma reliquia dei tempi, che furono, egli ci pone evidente sott’occhio la fisonomia di que’ tempi. La condizione, e il torbido zelo dei popolani, la generosa ferocia dei montanari, i riti, le costumanze, i [51] cortigiani, i signori, e i loro sicarj ti difilano innanzi, come se una magica voce li avesse costretti a levarsi dalla polve, ove giacciono da più secoli: e il Romanziere li veste talora di tinte sí vivaci, e reali, ch’egli merita il titolo di Profeta del passato, che un ardito ingegno conferiva agli storici.

E quanto alla parte ideale – lode all’uomo, a cui, malgrado 140 volumi, e 57 anni, sorride sí fresca la fantasia, e batte sí rapido il cuore da poter trarne l’idea di caratteri, come quelli di Proudfute, dell’armaiuolo, di Dwining ecc., e pitture sí care, e commoventi, come quelle di Caterina, e Luigia!

Per quanta lode abbiamo noi compartita a questo romanzo, non siamo sí compresi dall’entusiasmo, da non iscorgere, che alcune macchie guastano tratto tratto la beltà del lavoro; qualche lieve inverosimiglianza, qualche dialogo forse prolisso, lo studio di minutezze tropp’oltre spinto, e talora difetto di collegazione tra i fatti storici, e gli ideali illanguidiscono, o disviano l’interesse. Ma di simili nèi, comuni a quasi tutti i romanzi di Gualtiero Scott, ragioneremo forse in altra occasione. Per ora gli angusti limiti del giornale non ci concedono il trattenerci in una compiuta analisi del romanzo. Si può dare in poche linee l’analisi d’un dramma, specialmente classico, d’un romanzo greco, d’un’opera critica, che poggi sulle Aristoteliche norme, ed anche d’un Carmen, quando pure divagasse un po’ troppo: d’un romanzo storico dello Scott, in 4 volumi, in cui s’intrecciano molti fatti, e ti si parano innanzi a mille i sentimenti, e le descrizioni; non può darsi lo scheletro da chi sa, come appaja deforme il più bel corpo umano, quando più non vi spira per entro quell’aura di fervida vita, che lo animava.

martedì 12 maggio 2009

Giuseppe Mazzini: «Poesia estemporanea» (I, 4 - 1828)

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IV.
POESIA ESTEMPORANEA.

Indicatore Genovese, n. 6 del 14 giugno 1828.

[45] Il magnifico Salone del ridotto nel Gran Teatro avea d’uopo d’una solenne occasione ond’essere inaugurato alle arti belle che lo fecer sorgere, e l’impresa non potea meglio raccomandarsi che all’inspirato linguaggio delle Muse. – Opportuno fu l’arrivo in questa nostra Città del Dottore Antonio Bindocci di Siena, socio di varie illustri Accademie d’Italia (supponiamo anche Pastor Arcade) il quale nella sera d’jeri (15 Giugno) diede in detto locale un’Accademia di Poesia estemporanea – Dotato di una bellissima voce che sa modulare con molto garbo, e con accompagnamento di forte–piano, cantò diversi argomenti proposti da una scelta, sebbene non troppo numerosa udienza, ed il modo con cui furono trattati rimosse l’idea, non insolita a formarsi in simili occorrenze, di qualunque amichevole concerto – Gli esuli di Parga alla Tomba di Byron – riscosse vivissimi applausi. Nella Francesca da Rimini, argomento trattato in ottava, ed a rime obbligate, fu sommamente gradita una gentile allusione all’autore presente di uno dei più bei Drammi che vanti il moderno Teatro musicale, che porta il medesimo titolo (il chiar. Prof. Felice Romani). – Il Sonetto, quell’orrido letto di Procuste, reso anche più incomodo dall’obbligazione delle [46] rime, non sembra il genere più favorito al Poeta; che ne disse per altro uno ben felice sull’argomento Petrarca alla Tomba di Laura. – Del resto il sig. Bindocci che in età ancor verde segna i primi passi su quello che i suoi confratelli chiamano l’arduo sentiero, ci fa sperare che dalle falde non tarderà molto a comparire sull’erto giogo, ecc. ecc. – ciò che gli auguriamo ben di cuore, non tanto per il suo, quanto per l’onore della nostra Italia, che sola gode il privilegio di produrre simili portenti.

lunedì 11 maggio 2009

Giuseppe Mazzini: «Del romanzo in generale, ed anche dei Promessi Sposi d’Alessandro Manzoni» (I, 3 - 1828)

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III.
DEL ROMANZO IN GENERALE
ED ANCHE
DEI PROMESSI SPOSI
DI ALESSANDRO MANZONI.

Discorsi due - Milano, 1828, un picc. vol. (1)
(1) Opuscolo di Zajotti.
* Indicatore Genovese, nn. 5, 6 e 7 del 7, 14 e 21 giugno 1828.


I.

I precetti, e le teoriche in fatto di lettere riuscirono, e riusciranno difficili sempre, e spesso pericolose, specialmente, quando versino su’ lavori, ne’ quali hanno gran parte il cuore, e la fantasia. Ne’ secoli addietro si dettarono regole per lo più da chi mancava dell’uno a dell’altra, o giaceva sotto l’influenza d’opinioni esclusive. Però avvalorate da prevenzioni, e perpetuate dalla mediocrità fruttarono più ceppi al genio, che norme agli ingegni. – Ma quando si traggono insegnamenti dall’osservazione degli effetti, che producono su i più, che leggono i diversi modi di comporre, e si temperano i risultati severi dell’esperienza con ciò, che dettano il cuore, e il gusto dei tempi, l’uffizio dello scrittore didattico merita lode, come utilissimo; e lode sincera dee tributarsi all’autore dei due discorsi, che abbiamo sott’occhio.

Finché le nazioni oprano, finché grandi interessi pubblici assorbono gli affetti privati, il regno delle finzioni è negletto; però Grecia, e Roma non ebbero romanzieri, che tardi, e quando volgevano al decadimento; ove la vita dell’individuo sottentra a quella delle società, le illusioni si fan bisogno; meglio è dunque, anziché por contrasto ad un fatto, l’occuparsi di trarne il possibil vantaggio; e l’autore dei discorsi lo sa, e non rigetta il romanzo, come genere di letteratura vizioso, ma lo ammette come necessità, ch’ei deriva sagacemente dall’umana natura, e dalle abitudini della vita. Bensí, discorrendo del modo con cui possono esistere utilmente i romanzi, distingue assai bene il vero storico, o de’ fatti, dal vero morale, o degli affetti; e intorno al primo può concedersi molta libertà al romanziere, ma chi violasse il secondo, pingendo falsamente le passioni, o travisando le idee di vizio, e virtù, non avrebbe scusa: oggetto duplice, e son parole dell’Autore, hanno a cercare i romanzi, tenerci l’animo gentile, e puro dalle vili passioni, e risparmiarne, quanto co’ libri si può, i rigorosi avvertimenti dell’esperienza; e noi ne troveremmo un terzo nell’infiammarci ai nobili affetti, ove non derivasse dal primo.

Scende l’Autore alle due grandi classi di romanzi, una delle quali ci presenta l’uomo, qual dovrebb’essere, l’altra qual’è in effetto; e annovera gli scrittori, che le formano, giudicandone, per lo più rettamente; flagella i romanzi del genere da lui detto terribile, a modo d’esempio della Radcliffe, alla quale noi vediam porre a fianco con sorpresa il Goethe, la Staël, la Cottin, e con dolore un uomo, per cui l’Italia ebbe un romanzo, che molti tra’ suoi figli sanno a memoria. Ragiona dei romanzi politici, satirici, letterarj, filosofici, umoristici, d’educazione ecc., esamina le cagioni, per cui l’Italia mancò finora di romanzi, quelle che possono spronare i letterati ad empiere questo vuoto, e tutto ciò con copia d’osservazioni tratte dal cuore, con minutezza d’indagini sul merto de’ romanzieri, e con quel calore di stile, che accompagna la convinzione.

Non taceremo perciò, che, a nostro credere, l’Autore pagò tributo alle idee d’una scuola, che s’ostina nel proscrivere in letteratura quanto non ha faccia d’antico, rigettando il Romanzo storico, genere nato dalla tendenza del secolo, ch’esige istruzione anche da’ libri, a cui solea chiedersi prima un sorriso, o una lagrima.

La storia (che il più delle volte non è, che il registro delle azioni di pochi individui), quand’anche si scriva col metodo di Sismondi, presenta sempre un quadro incompiuto dell’epoca, che toglie a descrivere. Essa contempla i movimenti delle moltitudini, e nota i fatti generali, coordinandoli a segnare i progressi dei popoli, come i termini indicatori delle distanze; ma gli spazj intermedj sfuggono agli occhi nostri ne’ suoi lavori: essa fa campo d’osservazioni le capitali, ma le provincie, e le campagne non hanno in essa un interprete; noi troviam quest’interprete nel romanzo storico, il quale afferra tutti quei particolari, tutte quelle minuzie, che pur non sono inutili allo studio dell’umana razza, ci trascina a vivere in un dato secolo, e ce ne pinge sovranamente i costumi. Intanto la storia, che spesso allontana colla sua apparente secchezza, acquista ognor più favore, del che abbiamo esempio nell’Inghilterra, dove non fiorirono mai forse gli studi storici, come dopo l’introduzione del Romanzo storico. Noi esortiamo gli Italiani a consecrarsi con ardore a questo genere, e a trarne i materiali de’ tempi di mezzo, perché quei secoli, che la rea indifferenza degli scrittori dannò sí gran tempo le tenebre, sono fecondi, sovra tutti, di gravi insegnamenti, di memorie sublimi, e di esempli.

Ragioneremo in un altro articolo del secondo discorso.

II.

L’uffizio di critico, ch’è pure importantissimo in letteratura, s’è fatto da gran tempo oltremodo pericoloso in Italia; a molti, che s’abbattono in un libro di critica s’affaccia sul labbro, anche pria d’averlo letto, un sorriso, che dice: ecco l’opera d’un uomo, che incapace d’idee proprie, s’appaga nel biasimare le altrui. Né forse del tutto a torto, dacché troppo sovente fra noi – mercé le Accademie, i sistemi, le gare di municipio, e l’indole irritabile de’ Letterati – l’arte critica si stette in mano a’ pedanti, se pur non discese alla viltà dell’adulazione, o alla villania della satira. E notiam questo, perché più bella lode n’esca all’Autore dei due discorsi, il quale, scrivendo a lungo del romanzo d’Alessandro Manzoni, il fece con sí gentile animo, e tanto affetto del vero da insegnare ad ognuno, come la critica debba trattarsi, onde riesca non indegna dell’opera, ch’essa pone a disamina.

Noi avevamo in animo di presentare l’analisi di questo secondo discorso; ma le osservazioni sopra i Promessi Sposi son molte, e tali da non potersi ristringere senza infiacchirle. D’altra parte, ov’esse peccano per amor di sistema, il Manzoni è tal uomo, che non abbisogna della nostra difesa; e che varrebbe l’aggiungere il nostro suffragio, ove esse ci sembrano giuste? Stimiam dunque miglior partito il rimandare alla lettura del libro i giovani studiosi del bello; essi vi troveranno molti di que’pensieri, che niuna scuola rifiuta, perché sgorgati caldi dal cuore, che possiede solo, in mezzo al conflitto delle opinioni, un linguaggio universale, ed eterno. – Intanto, poiché l’autore, anche nel secondo discorso, non resta dal flagellare il genere del romanzo storico, opporremo di bel nuovo alle sue, poche nostre considerazioni.

Pessimo metodo per giudicare d’un genere di letteratura, pur ora nascente, è quello, che ne esamina i principj nell’applicazione, che ne han fatto pochi, e determinati scrittori; e mal si traggono argomenti a rovesciare le basi, che dar si vogliono ad una nuova foggia di comporre, dai vizj nei quali è caduto l’uno, o l’altro degli ingegni, che l’adottarono. Quando una novella letteratura è all’aurora, i suoi seguaci muovono d’ordinario passi mal fermi; come quelli, che hanno a fronte una via non per anco esplorata, e alle spalle il clamore dei molti, a’ quali torna conto lo starsi queti nei limiti delle antiche norme – e però chi si vale di quest’incertezza per trarne un’assoluta condanna del genere, opra come chi avesse dal carro di Trespi tolto argomento a bandir la tragedia. Tu sterpi, noi gli diremmo, un germoglio, che avrebbe forse, crescendo, fruttato utilmente ai nepoti. – Il Romanzo storico è pianta sbucciata appena in Italia, e già l’Autore dei due discorsi, prevalendosi della fama, che circonda il caro nome del Manzoni, attribuisce unicamente a vizio del genere il difetto d’interesse, e calore, ch’ei trova ne’ Promessi Sposi. Forse il difetto si esagera, e più d’una donna gentile, che ha palpitato sui casi dell’ingenua Lucia, e impallidito al ritratto dell’Innominato, accusa il giudicio di rigidezza; ma foss’anche vero, che trarne? L’ingegno del Manzoni è vastissimo; ma a nessuno è dato balzar fuori in un genere nuovo, perfetto, come Pallade dal capo di Giove. Fors’egli avrebbe dovuto scegliere i suoi personaggi ideali in una condizione, che ammettesse, se non più amore, modi almeno d’esprimerlo più caldi, e mezzi maggiori d’azione. Fors’anco il fine, ch’egli ebbe di rischiarare un oscuro periodo del secolo XVII si svela troppo apertamente ad ogni capitolo, sicché n’è riuscita piuttosto una storia resa dilettevole da romanzesche avventure innestatevi, che un Romanzo fatto utile dall’intreccio d’un quadro storico. Pure, che può derivarne? Tutto al più un dolore, che il Manzoni non abbia fatto, quant’ei poteva; ma nessuno potrà perciò persuadersi, che non possano in un Romanzo accoppiarsi esattezza storica, e vivo interesse di casi ideali; che ’l Waverley, l’Ivanoe, Kenilworth del Romanziere scozzese stanno a prova irrecusabile del contrario. – L’accusa data a’ Romanzi storici d’esser ridotti ad alterare la storia, o di farsi fredde compilazioni, vale per ciò, che riguarda i romanzieri, specialmente Francesi, che precedettero lo Scott. Essi ravvolgeano tutte le fila del racconto intorno ad un illustre individuo storico, e perciò difficilmente potean segnare una linea di separazione tra il vero, ed il falso. Ma il metodo tenuto dallo Scott ha tempra diversa; il suo romanzo è tessuto sopra vicende d’individui ideali, o memorati in tradizioni incertissime, ch’ei veste di caratteri, passioni, e abitudini consentanee al secolo, ch’ei s’è proposto di dipingere. Nel fondo del quadro appajono intanto alcuni personaggi storici di quell’epoca, i quali si vanno innestando nell’azione di mano in mano, che i casi dei personaggi ideali ne porgono il destro; per tal modo, situati, com’essi sono, in una luce secondaria, aggiungono importanza al lavoro senza inceppar la fantasia dell’autore coll’astringerlo alla severità della storia. Se ordita la trama del Romanzo in tal guisa, possono derivarne inconvenienti sí grandi da costituire un genere mostruoso, rendere il genio pigmeo, provocare una rovina irreparabile nelle storiche discipline, i difensori del vecchio castello cel dicano; ma intanto noi sappiamo, che nei molteplici casi della vita, la sorte de’ più umili tra i viventi è sovente annodata alle vicende d’individui collocati ad una somma distanza nella scala sociale, e destinati a non perir presso i posteri; che quindi il Romanzo storico trae le sue ispirazioni dalla Natura, unica sorgente del vero e del bello. –

III.

La lettera Q destò in Francia non son tre secoli ancora sí gran trambusto, che non ne eccitarono forse maggiore le mutazioni fatte al sistema planetario da Copernico, e Galileo. Godevasi essa tranquillamente, coll’autorità della Università di Parigi, il privilegio d’una pronunzia eguale affatto a quella della lettera K. Un grammatico, cervello bisbetico, che avea gridato, già non so quanto, contro il padre Aristotele, venne a turbar questa pace, e pretese, che due diversissime lettere non potevano in coscienza pronunziarsi nella stessa guisa – Mutar pronunzia a una lettera!!! non v’era modo di sopportarlo: se non mettevasi un argine alla innovazione, il mondo andava sossopra – il pomo della discordia era tratto: la gente letterata-erudita-filologa bandí la crociata addosso all’ardito; alcuni, che la novità seduceva, insorsero a favor del grammatico; l’Università gittò ad essi l’anatema; gli uni scrissero in-quarto; gli altri in-folio; i volumi furono molti; ma nessuno li lesse, e tutti gridarono più che mai. Ai libri tennero dietro le persecuzioni; i partigiani del Kamkam, e del Kiskis, che avevano il dado, si vendicarono dei quamquamisti colle confische – finché venne fuora un editto del Parlamento, che concedeva solennemente ad ognuno di pronunziare, come più volesse, la lettera Q, origine di tanta guerra.

Chi dicesse ora, che i due terzi almeno delle quistioni, che mossero in ogni tempo l’ire dei letterati, somigliano a questa del Q, e del K, s’aizzerebbe contro il grido di tutti; che l’umano orgoglio mal può ridursi alla trista confessione d’essersi pasciuto d’inezie. Pure, tal sentenza conterrebbe una sorgente di consolazione per noi, e annunzierebbe più rispetto pei destini dell’uomo, che non gli elogi pomposi co’ quali tuttodí si blandisce l’umana indolenza. Se le immense contese, che ogni secolo trascinò seco quaggiù, poggiaron sovr’altro, che sovra parole, è forza il dire, che noi camminiamo a tentone, erranti qua, e là senza luce, senza speme di luce; – è forza l’esclamare con duolo, che nulla è di certo, che la verità è chimera, e che noi dobbiam rassegnarci ad una guerra perpetua di pareri, e sistemi, che si divorin l’un l’altro, come gli armati di Cadmo. Ma se le nostre sono per lo più dispute di parole, possiamo lusingarci, che un giorno – quando il vero valor de’ vocaboli sia più esattamente determinato, e i letterati non s’ostinino nel crearsi un fantasma in ogni vapore, che rompe la noja d’un cielo uniforme, – le inezie cessino, e tutti s’annodino quetamente intorno a pochi fermi principj, desunti dalla natura, e dal cuore. Comunque sia, quel giorno è lontano: e finora s’aguzzano gl’intelletti a combattere un nome spesso vuoto d’idea, e a guerreggiare una nuova opinione, che, antica, s’abbraccerebbe. Cosí – ed eccoci all’applicazione – si rifiuta l’accozzamento dell’ideale, e del vero storico nei Romanzi, mentre da più secoli s’è tollerato, e applaudito nelle cose drammatiche. – Cosí lo stesso Autore dei due discorsi, riduce, senza avvedersene, la contesa del romanzo storico ad una contesa di soli nomi.

Il romanzo storico è, secondo lui, di due specie; l’una dei fatti, e dei personaggi; l’altra dei costumi, e dei tempi; questa seconda costituisce il romanzo, ch’egli chiama col nome di descrittivo, ed egli l’approva, pago di rigettare la prima.

Ora scegliete, noi gli diremo, un dato secolo con animo di riprodurne in un romanzo l’indole, le passioni, e le costumanze. Voi comincerete da uno studio profondo dei monumenti di quel secolo, e ne attingerete i lineamenti diversi, che distingueranno i caratteri, e i personaggi ideali da voi posti in campo a ritrarci in essi la fisonomia di quell’epoca. Trarrete dunque inevitabilmente questi dati e questa fisonomia da ciò, che vi narran le storie degli individui, ch’ebbero vita, e fama a quei tempi. – Su qual norma verrete intanto giudicato da chi leggerà il vostro libro? Sul vero storico desunto dalle narrazioni, e dalle memorie. Se i vostri personaggi penseranno, diranno, opreranno come si pensava, si dicea, s’operava in quel secolo, se il loro cuore batterà rapido sotto l’impulso delle passioni, che in allora regnavano, s’essi insomma si mostreranno veramente storici, voi avrete tócco il sommo dell’arte. Ma se un solo fatto straniero allo spirito, e alle idee dell’età, che pingete, verrà a rompere l’illusione, che trascina la fantasia più secoli addietro, in mezzo ad una generazione d’uomini spenta, avrete perduto l’opera vostra. Chi non vede la conseguenza? – Astretto ad una legge d’esattezza sí rigida, se non vorrete, che i vostri caratteri ideali pecchino contro d’essa, sarete costretto, vostro malgrado, a riprodurre i personaggi storici di quel secolo; ciò, che voi crederete l’opera della fantasia sarà quella della memoria, e avrete delineati uomini, ch’ebbero un’esistenza reale senz’altro cangiamento, che la sostituzione d’un nome oscuro ad un noto. – La contesa mossa contro il romanzo storico è dunque contesa di nomi.

Ma un tal lavoro diventa inutile: abbiamo storie – ... poche a dir vero; bensí vasti materiali di storie, e abbondanza di cronache. Ma quanti amano dissotterrarle? Quale vantaggio ne ritraggono i più? e perché vorrem noi negare un tributo di riconoscenza a chi ci trasfonde in un romanzo, commisto a’ più bei fiori del sentimento, ciò, che nessuno vorrebbe rintracciare per venti cronache nojose, e scure, come gli angoli degli scaffali ove giacciono?

Quando alla varietà dei modi di comporre, non si connette una notabile diversità di danno, o vantaggio, le controversie riescono inutili, perché il secolo, come l’editto del Parlamento, concede ad ognuno di scegliere tra l’un genere, e l’altro quello, a cui lo sprona il suo genio; e però, quand’anche nessun utile positivo derivasse dal romanzo storico, la nostra Italia non si lascerebbe indurre dalle paure di pochi ipocondriaci in letteratura a rifiutar la cittadinanza ad un genere, che lo Scott, il Cooper, il Van-der-Velde, e lo Zschokke hanno ormai fatto cittadino d’Europa: ma i vantaggi del romanzo storico non sono chimerici; essi stanno nel porgere coll’autorità di storici nomi una guarentigia maggiore della verità delle pitture, che si danno al pubblico – stanno nell’empiere una lacuna, che la Storia è forzata dal suo istituto a lasciare – e stanno nel favellare ad una gente de’ suoi padri, delle sue grandi memorie, delle sue virtù, de’ suoi vizj, delle sue sciagure....

Giuseppe Mazzini: «La Fidanzata Ligure» (I, 2 - 1828)

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II.
LA FIDANZATA LIGURE
OSSIA USI, COSTUMANZE, E CARATTERI DEI POPOLI DELLA RIVIERA
AI NOSTRI TEMPI.

Nuovo Romanzo dell’Autore della Sibilla Odaleta.

Edizione Nazionale: Volume I, pp. 25-28. Apparve inizialmente anonimo in Indicatore Genovese, n. 1, del 10 maggio 1828.

Gualtiero Scott pinse i costumi degli Scozzesi, e piacque utilmente, perché la Scozia, posta sotto l’influenza di singolari cause morali e fisiche, presenta un quadro, in cui grandeggiano le virtú, e i robusti delitti che accompagnano i popoli fluttuanti fra la nativa ferocia, e la novella civiltà. In Italia, la Corsica, e la Sardegna offrirebbero tuttora un campo fecondo a chi volesse ritrarre gli uomini, com’escono a un dipresso dalle mani della natura.

Ma poiché somiglianza di vicende, bisogni uniformi, e comunicazioni abituali tra popoli, indebolirono l’indole primitiva delle nazioni, la riviera Genovese non somministra singolarità d’usi, e costumi, che valga a far materia d’un romanzo, dove il genio non sappia trarre partito dalle poche diversità, figlie dell’antica forma di reggimento, e dal mare, che le bagna. Né seppe trarlo l’autore della Fidanzata, il quale descrisse, come esclusivamente Liguri, caratteri, ed abitudini di tutti i tempi, e luoghi, dacché v’han dappertutto onesti commercianti, albergatrici ciarliere, e stravaganti fanciulle.

Gl’intoppi, che la gelosia d’una donna, nomata appena, frappone tra i due fidanzati, formano una orditura priva d’incitamento che la novità versa pur sempre nell’animo di chi legge, e senza l’utile d’un fine morale. Del resto, nessuna originalità di caratteri, del che fan fede, tra gli altri, l’Erasmo, tolto di peso dalla Prateria di Cooper, e l’Ida, il cui modello sta nella Chiara dell’Acque di S. Ronano. Lo stile, malgrado i frequenti sali, e alcune reminiscenze dello Sterne, procede in generale freddo, e negletto. Il Romanzo intero, tranne il delirio d’Ida, e pochi altri squarci che parlano al cuore, non varca i confini del mediocre.


NOTE, COMMENTI E APPARATI

(Fra parentesi tonde le note originali di Mazzini,
quadre quelle del Blogger.
Si rinvia invece all’Edizione Nazionale
per le note e le introduzioni dei Curatori.

Le illustrazioni al testo sono attinte liberamente dalla Rete.
Verranno soppresse in caso di contestazione degli aventi diritto)

L’Autore del romanzo recensito dal giovane Mazzini, indicato non con il suo nome ma come autore di un precedente romanzo, La Sibilla Odaleta, si chiamava Carlo Varese (1793-1866). Sia “La Fidanzata Ligure” che “La Sibilla Odaleta” si possono scaricare da Google Libri. La “Fidanzata” ebbe anche una lunga recensione, stroncatoria, sulla Antologia, anno 1828, tomo XXXI, fascicolo di luglio n. 91 , pp. 115-128 a firma K. K. Y., che dovrebbe essere del Tommasèo che tenne conto della recensione già fatta dal Mazzini (cfr. p. 115). A prescindere dal valore letterario dei romanzi di Carlo Varese, morto nel 1866, scopriamo che il suo nome ricorre nella letteratura sull’antisemitismo. Nel suo romanzo, che fu alquanto popolare ma che oggi non si trova più menzionato neppure nel Dizionario Bompiani, si faceva riferimento agli “omicidi rituali” praticati dagli ebrei. Contro la sua opera e la sua memoria è scattata la censura ebraica ed è cosa che fa riflettere, imponendo perlomeno una revisione del giudizio critico stratificatosi nel tempo. Si veda al riguardo questa pagina, nel contesto di un convegno sull’«Olocausto» tenutosi nel 1999 e dove fin dalla notte dei tempi, pare di capire, tutti stavano a preparare la Shoah. Il romanzo di Carlo Varese è del 1827!

Giuseppe Mazzini: «Dell’amor patrio di Dante» (I, 1 - 1826 o 1827)

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Vol. I, nn. 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26.

I.
DELL’AMOR PATRIO DI DANTE.
(1826 o 1827)

Edizione Nazionale: vol. I, pp. 1-23. Edito originariamente nel Subalpino, Giornale di Scienze, lettere ed arti, ann. II, vol. I [1837], pp. 359-385.

Quando le lettere formavan, come debbono, parte delle istituzioni, che reggevano i popoli, e non si consideravano ancora come conforto, bensí com’utile ministero, fu detto il poeta non essere un accozzatore di sillabe metriche, ma un uomo libero, spirato dai Numi a mostrare agli uomini la verità sotto il velo dell’allegoria; e gli antichi finsero le Muse castissime vergini, e abitatrici dei monti, perché i poeti imparassero a non prostituire le loro cetre a possanza terrestre.

Ne’ bei secoli della Grecia, i poeti, non immemori della loro sublime destinazione, consecravano il loro genio all’utile della patria; ed altri, come Teognide, spargevano tra’ loro concittadini i dettati della saggezza; altri, come Solone, racchiudevano ne’ loro poemi le leggi, che fanno dolce il viver sociale; altri, come Pindaro e Omero, eternavano i trionfi patrii; altri, come Esiodo, consegnavano ne’ loro versi i misteri, e le allegorie religiose. – Cosí santissimo uffizio affidava la patria ai poeti, l’educazione della gioventù al rispetto delle leggi religiose e civili, e all’amore della libertà; e finché l’inno d’Armodio, e le canzoni d’Alceo suonarono sulle labra dei giovani Greci, non paventarono né tirannide domestica, né giogo straniero.

Ma, come la civiltà degenerata in corruttela, i guasti costumi, il lusso, e il tempo distruggitore d’ogni buona cosa, ebbero inchinata la mente degli uomini alla servitù, e la prepotenza de’ pochi giganteggiò sulla sommessione abbietta de’ molti, la poesia tralignò anch’essa dalla sua prima indipendenza, si trafficaron gli ingegni, e furono compri da chi sperava, che il suonar delle cetre soffocasse il lamento dell’umanità conculcata; la poesia divenne l’arte di lusingare la credulità, e la intemperanza dei popoli; attizzò all’ire e alle voluttà i tiranni, e si fe’ maestra spesso di corruttela, quasi sempre d’inezie.

Hanno tutte le nazioni, e noi più ch’altri abbiamo, immensi scrittori, e troppi forse poeti. Ma quanti furono coloro, i quali non prostituirono l’ingegno, e la penna alla tirannide politica (perché anche la repubblica delle lettere ha i suoi dittatori)? – Le corti, le sette, le scuole, le accademie, i sistemi, e i pregiudizi, che ogni secolo trascina, corruppero i più, e pochissimi furono quei grandi, che non seguitarono stendardo, se non quello del vero, e del giusto. – De’ primi la posterità fece severo giudicio, ma dei secondi affidò la memoria all’amore di tutti i buoni, e loro commendò di serbare intatto quel sacro deposito a conforto nelle sciagure, e ad incitamento ne’ tempi migliori. Fra questi sommi, che stettero incontaminati in mezzo all’universale servaggio, e non mirarono ne’ loro scritti, come nella lor vita, che all’utile della patria; l’Italia avida di lavar la memoria dell’antica ingiustizia, diè il primato, quasi senza contrasto, al divino Alighieri, e se orgoglio municipale o spirito di contesa mossero alcuni a ribellarsi contro l’universale sentenza, fu leggiero vapore in un bel cielo sereno. – Un uomo di cui son calde ancora le ceneri, e di cui vivrà bella la memoria tra noi, finch’alme gentili alligneranno in Italia, pareva avere rivendicato a Dante il vanto d’ottimo cittadino in tal guisa, che più non dovesse sorgere alcuno a contrasto. – Pure da qualche tempi diversi libri, che vennero a luce, senza risuscitare la disputa, mossero alcune querele conto l’amor patrio dell’Alighieri; e a queste querele fece eco un letterato italiano, il quale in una sua lettera, che inserí in uno degli ultimi numeri della Antologia [1], accusollo d’intollerante, e ostinata fierezza, e d’ira eccessiva contro Fiorenza. – Perloché stimiamo bene d’opporre alcune nostre considerazioni a questa rinascente opinione: che se non ci verrà fatto di dir cose nuove, ci conforteremo pur col pensiero, che le voci di un italiano, quali esse siano, non andranno del tutto perdute presso la presente generazione, ove ragionino di cose, che toccan dappresso l’onor nazionale.

A voler giudicar dirittamente dalle ragioni d’un’opera, dei motivi, che la dettarono, dei sentimenti sotto la inspirazione de’ quali fu scritta, e quindi della sua interpretazione, parmi affacciarsi un’unica via, troppo spesso negletta; lo studio de’ tempi, in cui fu composta e quello della vita dello scrittore.

Uno sempre è l’amor patrio nella sua essenza, e nel suo ultimo scopo; ma, come tutti gli affetti umani, subisce varie modificazioni, e veste forme diverse secondo che mutansi le abitudini, le costumanze, le opinioni religiose e civili, e le passioni degli uomini, che costituiscono questa patria, all’utile della quale si mira. – Come dunque variano i bisogni della patria, variar debbono i mezzi per cui può giungersi a soddisfarli o reprimerli, e quindi la direzione, che seguirà l’amor patrio in un secolo sarà totalmente diversa da quella d’un altro. – Ne’ bei tempi della romana repubblica il vero amor patrio era quello di Cincinnato; Bruto mostrò qual fosse sotto i principj della tirannide; Cocceo Nerva insegnò agli uomini qual alta prova rimanga a darsi dell’amor patrio, quando la servitù e irreparabile. – Ecco come la differenza de’ tempi modificava lo stesso affetto, che ardeva nell’anima di questi tre sommi. – Nello stesso modo s’esercita l’influenza dei tempi sugli scrittori, onde nascono le diverse tinte, che segnano le epoche varie di tutte le letterature. – Finché la storia della letteratura si confuse colla storia dei letterati, le strettissime relazioni, che passavano fra le istituzioni, e le costumanze d’un popolo, e la sua letteratura, sfuggirono inosservate; ma si scoprirono, quando le ricerche storico-letterarie presero una direzione più filosofica. – La tendenza del genio d’uno scrittore dipende in gran parte dalla posizione degli oggetti, che lo circondano; quindi l’amor patrio, ch’egli avrà in petto, apparirà in mille guise, secondo la diversa disposizione degli elementi sociali, de’ quali lo scrittore è in certo modo lo interprete. – In un secolo si manifesterà ravvolto in un magnanimo sdegno, dove in un altro si sarebbe confuso con un suono di lusinga e di pace. – Ponete uno storico (dotato d’altronde di tutte le qualità, che costituiscono l’uomo grande) nel secolo d’Augusto, testimone della calma, figlia della stanchezza, nella splendida corte, che imprimeva una nuova direzione all’attività del carattere romano, in mezzo alla apparente felicità, prodotta dal progresso della civiltà e della letteratura; e voi avrete Livio. – Trasportate lo stesso individuo dopo il regno di Nerone, sul principio di quello di Domiziano, dove era spenta ogni antica virtù, dove l’uomo strisciava privo di dignità in mezzo al contrasto della tirannide più feroce e della più umiliante viltà; e avrete Tacito. – Ambi erano di amor patrio caldissimi, ma il primo, sedotto dall’apparente tranquillità, credé Roma felice, e quindi tessé la storia delle sue antiche grandezze più com’inno, che lusinga l’orecchio dei forti, che come acerba rampogna al torpore dei neghittosi; laddove Tacito, venuto ai tempi, che non concedevan l’illudersi, scrisse la sua, come l’ultimo eco della libertà fuggitiva, non risparmiando ai suoi coetanei il quadro della loro immensa viltà.

A’ tempi dunque è d’uopo guardare per conoscere, se il linguaggio d’uno scrittore è tale, che possa dirsi spirato dall’affetto della sua patria, conveniente cioè alla situazione in che questa giace. Or quali furono i tempi dell’Alighieri? Come ordinati gli elementi sociali? Una brevissima esposizione della particolare fisionomia di quel secolo, dei tratti, che lo caratterizzano, e lo distinguono da’ successivi, non sarà forse inutile per coloro a’ quali non è dato l’inoltrarsi molto nella storia dell’età media.

L’Italia del secolo decimoterzo offeriva riunito allo sguardo quanto ci presentò successivamente la storia intera del globo. Tutte le diverse forme di civili, e politiche istituzioni si dividevano le sue città. – Tutti gli elementi, che creano la miseria, o la felicità delle nazioni s’agitavano nel suo seno. – Una somma energia, un valore indomito, una insofferenza di giogo, una irrequieta fecondità nel formare progetti, una feroce costanza nel superare gli ostacoli, che s’attraversavano, stavano a contrasto con una rabbia di dominazione, con una smania di sovvertimento, con una intemperanza d’audacia, col più violento spirito di vendetta, colla brutalità più sfrenata. – Sublimi virtù, e grandi delitti, uomini d’altissimi sensi, e scellerati profondi segnan quel secolo, come ne’ climi, ove la natura è più feconda, giganteggian gl’opposti del bello, e dell’orrido. – Con questa energia, con questa sovrabbondanza di forza, l’Italia avrebbe potuto fondare in quel secolo la sua indipendenza contro l’insulto straniero, [2] ove alcuno avesse posseduto l’arte difficile di volgere tutte quelle passioni ad un solo scopo. – Ma poiché nol tollerò la discordia ingenita nelle menti italiane, e attizzata ognor più dall’ambizione di chi nelle discordie altrui eleva la propria potenza, e dallo spirito invasore dello straniero, fu forza, che quelle torbide genti, a cui l’inerzia era morte, non dirette, non frenate, rivolgessero a danno della madre comune il bisogno d’oprare. – Né mancavano le cagioni di turbamenti. – I nomi di Guelfi, e di Ghibellini, nomi infausti ad ogni orecchio italiano, suonavano per quasi tutta questa terra infelice, perché le fazioni sopravvivono alle cause dalle quali trassero origine, e queste tanto più si suddividevano, quanto mancavan sovente d’una mira determinata. – Né la riforma tentata, e in parte compiuta da Frate Giovanni da Vicenza, né il reggimento repubblicano, mercè il quale Fiorenza vide risorte le lettere, e l’arti, impedirono che la discordia ripullulasse ognor più feroce nella terra Lombarda, e nalla Toscana. – Dall’un termine all’altro le spade italiane grondarono sangue italiano. – Gli stati di Napoli lacerati dalle lunghe lotte di Manfredi e dell’usurpatore Carlo d’Angiò fremevano sotto il sanguinoso giogo; la Sicilia vendicava col vespro il giovane Corradino; vendetta sterile, che poneala per qualche tempo sotto il dominio de’ re d’Aragona. – Nella Lombardia, i Della–Torre tentavan d’assidersi sulle rovine della tirannide d’Ezzelino. – Siena, Arezzo, Fiorenza combatteansi accanitamente. – La signora de’ mari provocava a guerra mortale Genova e Pisa. – E a danni di Pisa congiungevano l’armi Fiorenza, Lucca, Prato, Pistoia, Volterra ed altre nemiche giurate tra di loro prima che il furor Guelfo confondesse i loro interessi contro l’unica città Ghibellina della Toscana; ma guerre eran quelle non temperate da que’ precetti, che il pudore dettò alle nazioni e ch’esse approvarono col nome di dritto delle genti; guerre combattute colla ferocia dei tempi, e dallo scopo a cui tendevano, come quelle, che più spesso all’esterminio miravano, che a mutamenti di governo e di territorio. – Ogni occasione afferravasi, purché dannosa al nemico; ogni mezzo era buono, purché guidasse a vittoria. – Le tregue convertite in agguati, ogni maniera d’insidia, ogni genere di tradimento, tutto sembrava lecita parte di guerra. – E ad ognuno, il quale rammenti, nella sola guerra tra Genova e Pisa, il giuramento, con che s’astrinsero le città alleate de’ Genovesi, a struggere le mura Pisane, e disperderne i cittadini nelle terre vicine, la fuga del conte Ugolino nella battaglia della Meloria, – il modo, con cui si trattaron da’ Liguri undici mila prigionieri Pisani, frutto di questa vittoria, diecimila dei quali periron tra ceppi, fremerà l’anima in petto non discorde dalle nostre parole. Che se noi diamo un’occhiata all’intera situazione delle città, tal quadro ci s’appresenta, che noi non possiamo, se non gemere su questa nostra Italia, che diede sí miserando spettacolo al mondo. – Per ogni dove i cittadini correvano a’ tumulti, e alle risse, colla stessa ira, che con il furente lacera le proprie piaghe. – Per ogni dove gli oltraggi, le ferite, gli assassinj contaminavano le belle contrade, che sembravano create dalla natura ad una pace tranquilla ed eterna; ché agli uni poneva il sangue sul brando desio di prepotente dominio, agli altri timor di servaggio, e smania d’indipendenza forse tropp’ oltre spinta. – Le primarie famiglie nobili erano quasi tutte in aperta nimicizia tra loro; le minori parteggiavano per l’une o per le altre. – Quindi le città turbate sempre da’ privati dissidi che per lo più si decidevan coll’armi; ogni palazzo era roccia di guerra, ogni piazza potea divenir teatro di combattimenti. – Intanto gl’animi s’educavano al disprezzo di ogni ordine e d’ogni legge; la sommessione a’ tribunali da’ nobili si reputava viltà; ove un d’essi venisse tratto in giudizio, si tentava da coloro, che vincolo di parentela stringeva col reo, di trarlo a forza dalle mani de’ suoi custodi; ogni personale delitto faceasi per tal modo delitto di molti. – Le leggi erano: ma i governi erano impotenti a serbarne intatta l’esecuzione; onde, poiché nessuna cosa valeva a frenare l’intemperante audacia de’ nobili, il popolo stanco di sofferire in silenzio, levavasi in arme contro i perturbanti del suo riposo. – Siffatte popolari rivoluzioni non regolate dalla saggezza de’ Governanti, dirette da privati rancori, animate dalle memorie d’antichi oltraggi, attizzate ognor più da qualche adulatore di plebe, oltrepassavano quasi sempre lo scopo (del che abbiamo, per tacer d’altri, luminoso esempio nella rivoluzione, i il flagello della anarchia ogni cosa percotea; ed alla tirannide della nobiltà sottentrava l’ebbrietà della plebe, pur sempre tirannide. – Cosìs’avvicendava il disordine sotto forme diverse, finch’ una famiglia più avveduta dell’altre, invadesse la signoria.

Tali furono i tempi, ne’ quali Dante menò la dolorosa sua vita, tempi fecondi di gravi insegnamenti a chi dentro vi guardi con occhio filosofico, tempi, dallo studio dei quali non può venir che salute all’Italia. – Ora se v’ha taluno, al quale, dopo aver percorsa la storia di quest’età, non s’affacci sul volto, che un sorriso di sterile compassione, questi è da più, o da meno d’un uomo; ché le sciagure d’una nazione, la quale, piena di coraggio e di forze, le rivolge furiosamente contro i suoi figli, e prepara allo straniero la via, consumando miseramente se stessa, saranno sempre alto argomento di dolore, e di pianto a chi sente. – E diciamo di dolore, e di pianto, perché in ogni tempo i più s’appagano di gemere, e di tacere sovra infortunii, a cui non possono porre riparo. – Ma in tutti i secoli v’hanno delle anime di fuoco, che non possono acquetarsi all’universal corruttela, né starsi paghe d’uno steril silenzio. – Collocate dalla natura ad una immensa altezza comprendono in un’occhiata la situazione, e i bisogni de’ loro simili; straniere a’ vizi de’ loro contemporanei, tanto più vivamente ne sono affette; uno sdegno santo le invade; tormentate da un prepotente desío di far migliori i loro fratelli, mandano una voce possente e severa, come di Profeta, che gridi rampogna alle genti; voce, che il più delle volte vien male accolta da coloro, a’ quali è dirizzata, come da fanciulli la medicina. Ma chi dirà doversi anteporre la lusinga d’un plauso fugace alla riconoscenza più tarda de’ posteri? – A questa sola Dante mirava, e lo esprimeva in quei versi, che non dovrebbero obbliarsi mai da chi scrive –
E s’io al vero son timido amico,
Temo di perder vita tra coloro,
Che questo tempo chiameranno antico.
Parad., c. XVII
Forse egli gemeva della dura necessità, che astringevalo a denudare le piaghe della sua terra, forse ogni verso, in cui scolpiva una delle tante colpe, che la macchiavano, gli costava una lacrima, e gli dolea, che la sua voce dovesse esser molesta nel primo gusto; ma si confortava pensando, che avrebbe lasciato vital nutrimento, come fosse digesta, conforto veramente degno dell’alto animo suo; perché bella lode s’aspetta a chi tempra un inno alle glorie patrie, ma vieppiù bella a chi tenta ricondurre all’antica virtù i suoi degeneri concittadini, impresa difficile e perigliosa. – Utilmente lusingavano l’orecchio de’ giovani Greci le odi nazionali di Pindaro, quando la virtù dei vincitori nei ludi Elei splendeva incontaminata nel foro e nel campo; le stesse odi avrebbero suonato amaro scherno o adulazione codarda dopoché la libertà greca era spirata nelle pianure di Cheronea. Ond’è, che in un popolo guasto per molti vizi, o neghittoso per nullità di sentire, sarà santo sempre sovra ogni altro l’uffizio, che s’assume la satira, quando venga trattata non colle scurrilità di Settano, o coll’animosità cieca del Rosa, ma colla severità della virtù, con che Persio sentenzia gl’inetti dell’età sua, o colla onesta decenza del nostro Parini. – Però agli italiani del secolo decimoterzo, ad uomini educati all’ire dalle contese domestiche, ed estere, che sorridevano alla vendetta, come a delizia celeste, la fantasia de’ quali richiedea per essere scossa rappresentanze di dannati, e d’eterni tormenti (1), lo stil grave di Persio, e la dilicata ironia del Parini avrebber suonato inutili, come una voce isolata nel fremito della tempesta. – Per essi volevansi parole di fuoco, come l’indole loro, parole d’alto sdegno, d’iracondo dolore, di amaro scherno, tali insomma, che colpir valessero quelle menti indurate, perché l’aura, che offende la dilicata beltà, passa non sentita sulla cute incallita del villano, e agli scrittori è forza usar lo stile, che i tempi richieggono, ov’essi anelino all’utile, non ad una gloriuzza sterile e breve. – Tali parole proferí l’Alighieri, ispirandosi alle sciagure immense della sua patria, alle colpe e a’ vizi, che le eternavano, e all’anima sua bollente, mesta e severa per natura, allevata ne’ guai, di niuno amica, fuorché del vero. – Vestita la severità d’un giudice, flagellò le colpe e i colpevoli, ovunque fossero; non ebbe riguardo a fazioni, a partiti, ad antiche amicizie; non serví a timor di potenti, non s’innorpellò ad apparenze di libertà, ma denudò con imparziale giudizio l’anime ree, per vedere se il quadro della loro malvagità potesse ritrarre i suoi compatriotti dalle torte vie, in che s’erano messi, come i magistrati di Sparta, a chi s’avviliva coll’uscir da’ limiti della temperanza, presentavano l’abbietto spettacolo d’un Iloto briaco. – Or se questa è mente indegna di buon cittadino, noi confessiamo d’ignorare il valore di questo vocabolo; ma chi negasse una tal mente aver diretto l’intero poema, noi opporremo le parole stesse dell’Alighieri, il quale nella terza cantica si mostra così convinto della santità dell’opera sua, che illudendosi sulla riconoscenza de’ suoi coetanei, si conforta colla speranza, che il suo poema possa riaprirgli le porte dell’amata Fiorenza (2). – Questa testimonianza d’una coscienza immacolata non ci par cosa di poco peso nella Quistione, perché un tal voto, una tale speranza non s’affacciano ad un uomo, il quale arde d’ira contro la patria, e contro d’essa inveisce scrivendo. – E Dante esprimeva questa sua illusione nel canto vigesimo quinto del Paradiso, verso il termine dell’età sua; quando avea già ingoiato tutto il calice dell’esilio, quando ei dovea essere inacerbito da tutte le miserie, che accompagnano l’uomo bisognoso e d’animo fiero.

Del resto noi non annoieremo chi legge collo schierare dinanzi tutti que’ tratti del divino poema, che pongono in evidenza la piena d’affetto patrio, di che avvampava l’esule illustre, e sarebbe opera inutile, dopo quanto ne sminuzzò il Perticari; ma diremo, che quand’anche non esistesse il sublime canto, in cui parla Sordello, né alcun altro di simil fatta, a chi s’inviscera nella mente d’uno scrittore, gli stessi tratti, che s’allogano a dimostrare la vendetta dell’Alighieri, verrebbero a far piena discolpa dell’animo suo. – Egli inveisce agramente contro le colpe, onde l’itala terra era lorda, ma non è scoppio di furore irragionevole, o d’offeso orgoglio; è suono d’alta mestizia, come d’uomo, che scriva piangendo; è il genio della libertà patria che geme sulla sua statua rovesciata, e freme contro coloro, che la travolser nel fango. – Nei versi, che più infieriscono, tu senti un pianto, che gronda sulla dura necessità, che i fati della patria gl’impongono; tu discerni l’affetto d’un padre, il quale si sforza di vestire una severità, che non è nel suo cuore, per soffocare una passione crescente nel petto del figlio, che può trascinarlo in rovina. Le voci – patria, natio loco, mia terra – appaiono tratto tratto per farti risovvenire, che il poeta ama Fiorenza collo stesso ardore, con cui flagella i lupi, che le dan guerra. – Sovente egli cerca un tristo compenso nei giorni, che furono, e riposando il suo sguardo stanco sull’antica situazione della sua città, rammenta con orgoglio sublime ciò che fu un tempo, ritraendoci con tinte d’inimitabil dolcezza, la pace, la serenità, la virtù semplice, e queta, che faceano di quella terra un soggiorno celeste, primaché il puzzo del Villano d’Aguglione, e di quel da Signa contaminasse quella purità di costumi.

Acerbissime dunque furono, nol neghiamo, le querele dell’Alighieri; ma tali quali esigevano i tempi, i costumi, le circostanze dell’età sua; tali specialmente, quali l’affetto patrio ben concepito impose a tutti gli uomini, che per genio, e virtù si sollevarono al di sopra degli altri (3). Il Perticari pose innanzi agli accusatori di Dante tratti non meno aspri e pungenti del Boccaccio, del Villani: memorò le parole severe, che Demostene, Aristofane, Tullio, Platone, Seneca, Tacito, ed altri mille scagliarono contro i peccati delle loro terre; e si lagnò della ingratitudine dei posteri, che della stessa cosa gli uni laudavano, mentre accusavano l’altro; perloché noi non ci tratterremo sopra questo argomento; e rimembreremo soltanto, come il Petrarca, di cui Perticari non fece motto, trascorse oltre lo sdegno dell’Alighieri, ogniqualvolta dall’oggetto eterno dell’amor suo torse il guardo all’Italia. – I tre sonetti, nei quali impreca ogni castigo a Roma, superano in ira quanto fu detto mai da Dante, o da alcun altro poeta. – Nella canzone

Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno

egli mostra altamente il suo disprezzo pei tanti tirannetti, che laceravano la patria: nell’altra, ch’egli forse inviò a Stefano Colonna, e che incomincia:

Spirto gentil che quelle membra reggi

chiama l’Italia tutta vecchia, lenta, oziosa; e brama, che alcuno ponga mano nella sua venerabile chioma, e nelle sue trecce sparte. – E il Petrarca viveva in tempi di minor ferocia, benché d’egual corruzione; non avea certamente oltraggio da vendicare: era dotato d’animo sovra ogn’altro dolcissimo, nudrito di sospiri d’amore, educato alla pieghevolezza dalle corti, ove ei, troppo forse per l’onor suo, soggiornava.

Un’ultima prova intanto del vero, che per noi si sostiene, trarremo dagli altri scritti dell’Alighieri; e poiché le idee d’un autore debbono, come le leggi, interpretarsi l’una coll’altra, un guardo solo, che noi gettiamo sopra tuttociò, ch’egli andò di mano in mano vergando, ci convincerà ognor più dell’animo suo. – In tutti i suoi scritti, di qualunque genere essi siano, traluce sempre sotto forme diverse l’amore immenso, ch’ei portava alla patria; amore, che non nudrivasi di pregiudizietti, o di rancori municipali, ma di pensieri luminosi d’unione, e di pace; che non ristringevasi ad un cerchio di mura, ma sibbene a tutto il bel paese, dove il sí suona, perché la patria d’un italiano non è Roma, Firenze, o Milano, ma tutta l’Italia. Con tale mente egli scrisse il libro della Monarchia, in cui se tutte le idee non son tali da dover essere universalmente abbracciate, tutte almeno appaion dettate da un ottimo spirito, quale ammettevano i tempi; in questo egli mirò a congiungere in un sol corpo l’Italia piena di divisioni, e sottrarla al servaggio, che allora minacciavala più che mai. – E se il latino linguaggio, le forme scolastiche, che vi campeggiano, e la scarsezza delle edizioni copriron quest’opera quasi d’obblío, non è men vero, che ei vi gittò que’ semi d’indipendenza e di libertà, ch’ei profuse poscia nel suo poema, e che fruttificarono largamente nei secoli posteriori. – Con tal mente fu da lui concepito il trattato del volgare Eloquio, che concitò in questi ultimi tempi lo spirito irritabile de’ letterati italiani a controversie più argute forse, che utili. – In questo egli s’erge luminosamente al di sopra di quella torma di grammatici, che fanno intisichire la lingua per volerla costringere nelle fasce della sua infanzia; dimostra la vera favella italiana non esser Tosca, Lombarda, o d’altra Provincia; ma una sola, e di tutta la terra

Ch’Appennin parte, e ’l mar circonda, e l’alpe.

Insegnando a’ suoi coetanei, come questo idioma illustre, fondamentale non aveva nessun limite, ma si facea bello di ciò, ch’era migliore in ogni dialetto, egli cercava di soffocare ogni contesa di primato in fatto di lingua nelle varie provincie, ed insinuava l’alta massima, che nella comunione reciproca delle idee sta gran parte de’ progressi dello spirito umano. – Siffatti pensieri ebbero da lui più ampio sviluppo nel suo Convivio, dov’egli si pronunzia con entusiasmo campione della favella italiana volgare, e predice a questa verginella modesta, ch’egli educava a più nobili fati, glorie, e trionfi sull’idioma latino, ch’era ormai sole al tramonto. – Egli si mostra, come fu notato da uno scrittore, ben più altero della nobiltà, e dell’efficacia della sua lingua, che del merito dei proprii versi. – Sembra ch’egli col pascersi di quest’avvenire cerchi stornare la mestizia, che gl’infortunj politici d’Italia, e di se stesso gli procacciavano; perch’egli scriveva quest’opera, quando avea già sperimentato, come l’arco dell’esilio saetti acuto lo strale, quando la sua vita dechinava al fine. – Eppure l’affetto di patria ardeva sempre vivissimo nel cuor suo, come ci fanno fede que’ tratti commoventissimi, ne’ quali piange la sorte, che lo gittò fuori del dolce seno della bellissima, e famosissima figlia di Roma, Fiorenza. – Quest’affetto di patria mai nol lasciò, accompagnandolo nelle sue peregrinazioni per l’Italia; non formò pensiero, non mise sospiro, che non lo spirasse; e per tacere della bella canzone

Tre donne intorno al cor mi son venute

e della bellissima

O patria degna di triunfal fama,

perfino quand’egli scrive ciò, che amore gli detta, non

pensa tanto alla sua Beatrice, che obblii la città, dove nacque; cosìnella canzone, che incomincia

Amor, da che convien pur ch’io mi doglia

il lamento, ch’ei mette per la crudeltà della donna sua, gli è cagione di rimembrare la crudeltà di Fiorenza, che fuor di sé lo serrava,

Vota d’amor, e nuda di pietate;

e nell’altra

La dispietata mente che pur mira

tutta d’amor, ricorda il dolce paese, ch’ha lasciato.

Ma ove pure alcuni squarci del poema potessero lasciare un senso d’esitazione nell’animo, noi abbiamo una testimonianza irrecusabile, che non lascia alcun dubbio sulla mente, che animò la sua cantica. – Questa è la sua vita. Ciò, che in essa più monta è oramai conosciuto abbastanza, benché l’Italia, malgrado un diluvio di commenti, note, memorie, e saggi, non possegga finora una vita degna di questo sommo, e il voto del nostro buon Pelli rimanga pur sempre inesaudito. – Ond’è, che noi moveremo intorno ad essa parole brevissime.

Non difficil cosa sarebbe, crediamo, il dimostrare, come il mutamento di parte, di che lo accusaron taluni, fosse figlio non d’una mente volubile, o della necessità dell’esilio, bensí d’un affinato discernimento, e d’una imparzialità a tutta prova, dappoiché la Guelfa fazione, che potea parere a prima vista animata da uno spirito più italiano, e che egli seguí, finché il bollore giovanile gli fe’ legge di seguir la parte, in che tutti i suoi s’eran messi, appunto in quel torno, guasta da’ nuovi partiti, piegò dal proposito primo, e mostrò evidentemente di servire a privati affetti, e agli interessi di chi la moveva più, che a quei della patria. – Ma questa, ed altre quistioni di simil fatta non son tali, che possano trovar luogo ne’ brevi limiti di un articolo di giornale, e spetterebbero a chi s’assumesse di dare all’Italia una buona vita dell’Alighieri. – Ben diremo che siccom’egli siede, e siederà gran pezza primo fra i poeti, che durano eterni, cosìla sua vita può presentarsi con tutta fidanza a modello di coloro, che san cos’è patria, e com’essa vuol esser servita. – Un’esistenza d’undici lustri non fu per lui, che un solo sospiro, e questo fu per la Italia. – Non ebbe riposo giammai nella lotta, ch’egli intraprese animosamente contro i suoi oppressori, contro i pregiudizi, che la dominavano, contro l’ignoranza, che sovr’essa pesava. – Logorò il fiore dell’età sua in sagrifizi continui per la terra, che lo rinnegò. – Sembra impossibile, che dopo aver percorse le circostanze della sua vita, alcuno abbia potuto muovere sospetto sullo spirito, che lo animava. – L’uomo, che combatté valorosamente nella giornata di Campaldino (1289) contro la gente di Arezzo, che guerreggiò un anno dopo contro i Pisani; – l’uomo, che Firenze scelse all’età d’anni trentacinque ad uno de’ tre reggitori della repubblica – che seppe in tempi difficilissimi ottenersi tanta fama di senno, e d’integrità, che, come sul suo capo posassero le sorti delle cose patrie, i due priori, suoi compagni, a lui solo affidavano il maneggio degli affari più perigliosi; – l’uomo che nelle gare de’ Bianchi, e dei Neri, spogliatosi d’ogni privata affezione, pronunziò la sentenza d’esilio contro ambe le parti (1301), monumento di severa imparzialità; – che volò a’ piedi di Bonifazio per vedere di smuoverlo da’ consigli, che ponevano Fiorenza sotto la tirannide di Carlo di Valois; e che più tardi, quando più gemeva sotto il pondo delle ingiurie della fortuna, ritrovò tanta forza d’animo da condannarsi ad un bando perpetuo, anziché avvilir sé, e la sua patria colla vergogna d’una sommessione disonorevole (4). – Quest’uomo, diciamo, presenta un tal quadro, che sfida il mordere dell’invidia. – Poiché fu bandito, errò lunga pezza per tutta l’Italia, vivendo di memorie, grande del suo dolore, forte di quell’ingegno, che niuno può torre. – L’infortunio non l’avvilí; la miseria, che, a detta di Omero, dimezza l’anima dello schiavo, non gli tolse pur una dramma del suo generoso sentire; ma stette contro i colpi della fortuna, com’uomo che duolsi più dell’altrui, che del proprio danno; e bench’ei fosse astretto a mendicare dai signori italiani un tozzo di quel pane, che sa di sale, non piegò dinanzi al potere, non prostituí il suo genio, e la musa a speranze di principesca mercede. – Com’ei vide tronca ogni via per soccorrere col senno, e col braccio alla patria inferma, diè mano allo scrivere, e legò in un poema eterno a’ suoi posteri l’amore il più ardente della indipendenza, e l’odio il più fiero contro i vizi, che trassero a mal partito la sua Fiorenza. – Compié il suo mortale pellegrinaggio in Ravenna; ivi riposano ancora le sue ossa, segnate da un monumento indegno di lui, lontane dalla terra, che tanto amò, e dove l’inerzia di Leon X non permise che a lui s’ergesse una tomba da Michelangelo, erede del suo genio, e l’unico forse degno di pagargli il tributo, che l’Italia deve alla sua memoria.

O Italiani! Studiate Dante; non su’commenti, non sulle glosse; ma nella storia del secolo, in ch’egli visse, nella sua vita, e nelle sue opere. – Ma badate! V’ha più che il verso nel suo poema; e per questo non vi fidate ai grammatici, e agli interpreti: essi sono come la gente, che dissecca cadaveri; voi vedete le ossa, i muscoli, le vene che formavano il corpo; ma dov’è la scintilla, che l’animò? – Ricordatevi, che Socrate disse il migliore interprete d’Omero essere l’ingegno più altamente spirato dalle muse. Avete voi un’anima di fuoco? – Avete mai provato il sublime fremito, che destano l’antiche memorie? – Avete mai abbracciate le tombe de’pochi grandi, che spesero per la patria vita, e intelletto? – Avete voi versata mai una lacrima sulla bella contrada, che gli odi, i partiti, le dissensioni, e la prepotenza straniera ridussero al nulla? – Se tali siete, studiate Dante; da quelle pagine profondamente energiche, succhiate quello sdegno magnanimo, onde l’esule illustre nudriva l’anima; ché l’ira contro i vizi e le corruttele è virtù. – Apprendete da lui, come si serva alla terra natía, finché l’oprare non è vietato; come si viva nella sciagura. – La forza delle cose molto ci ha tolto; ma nessuno può torci i nostri grandi; né l’invidia, né l’indifferenza della servitù poté struggerne i nomi, ed i monumenti; ed ora stanno come quelle colonne, che s’affacciano al pellegrino nelle mute solitudini dell’Egitto, e gli additano, che in que’ luoghi fu possente città. – Circondiamo d’affetto figliale la loro memoria. – Ogni fronda del lauro immortale, che i secoli posarono su’ loro sepolcri, è pegno di gloria per noi; né potete appressare a quella corona una mano sacrilega, che non facciate piaga profonda nell’onore della terra, che vi diè vita. – O Italiani! – non obbliate giammai, che il primo passo a produrre uomini grandi sta nello onorare i già spenti.



NOTE, COMMENTI E APPARATI

(Fra parentesi tonde le note originali di Mazzini,
quadre quelle del Blogger.

Si rinvia invece all’Edizione Nazionale per le note e le introduzioni dei Curatori.
Le illustrazioni al testo sono attinte liberamente dalla Rete.
Verranno soppresse in caso di contestazione degli aventi diritto
)

(1) Giovanni VILLANI, Ist. Fior., lib. III, n. 70.

(2)
Se mai continga che il poema sacro,
Al quale ha posto mano e cielo, e terra,
Sí che m’ha fatto per più anni macro,
Vinca la crudeltà che fuor mi serra
Del bello ovile ov’io dormi’ agnello
Nimico ai lupi che gli danno guerra; ecc.
Parad., c XXV.

(3) Se vero è, come risulta dalla vita di Dante del Boccaccio, da due novelle di Franco Sacchetti, e da altri, che i primi sette canti almeno fossero di già composti, e diffusi in Firenze, prima ch’ei ne fosse cacciato, ognun vede dal tenore di quei canti, e dallo stile, che in essi s’adopra, non doversi ascrivere all’ira della sciagura, bensí ad alto, e fermissimo proposito dello Scrittore, l’aspre parole, e i rimproveri, ch’egli proferisce nel suo poema.

(4) Noi non esitiamo a porre tra i fatti più degni di lode dello Alighieri questo suo rifiuto d’entrare in Fiorenza, benché alcuno abbia voluto inferirne rancore, e superbia. – A chiunque rammemori tutte le vie ch’ei tentò per ricuperare la patria, e la lettera, ch’egli scrisse al suo popolo, mentovata da Leonardo Bruni nella sua Vita di Dante, non può venir dubbio sul desiderio, ch’egli nutriva di rimpatriare. – E dove si considerino le turpissime condizioni, che a lui s’offerivano, memorate dal Boccaccio nella vita, ch’egli lasciò di lui, e la lettera intera di Dante, ch’egli inviò a chi gli faceva tali proposte, non riman luogo, che ad altissima ammirazione; perché l’uomo deve prima di tutto rispettare la sua patria in se stesso, e la qualità di cittadino allora veramente si perde, quando ottiensi colla viltà, o coll’infamia.

* * *

[1] Non abbiamo ancora ancora trovato il riferimento esatto del giovane Mazzini, ma in compenso abbiamo trovato in rete la Collezione della famosa “Antologia” di Viessieux, uscita a Firenze nel 1821 e continuata a cadenze trimestrali per i decenni successivi. La rivista nasceva dopo analoghe esperienze in Francia, in Germania, in Inghilterra. Si ispira particolarmente alle riviste francesi, da cui traduce estratti. Grazie alla comodità offerta da Google Libri, che ci risparmia pesanti sedute in biblioteca pubbliche, scorreremo rapidamente l’intera Collezione digitalizzata per ricavare una diretta impressione dello spirito dell’epoca, da noi distante due secoli. Ci soffermeremo su quanto ci parrà interessante. Ma intanto possiamo desumere che questa rivista, l’Antologia, contribuì alla formazione intellettuale e politica del giovane Mazzini.

[2] Ecco qui una tipica insofferenza verso lo “straniero” in quanto dominatore che viene da fuori e porta oppressione. L’edizione nazionale degli scritti di Mazzini rubrica come “letterari” questo ed altri scritti. A nostro avviso, Mazzini resta sempre in ogni sua riga, anche quando si interessa di letteratura, sempre uno scrittore politico che trasporta le preoccupazioni della sua epoca e le sue proprie idealità ad ogni oggetto che si trova a trattare. Questo gli funge solo da pretesto. Non dimenticando la nostra ricerca sul sionismo, già da queste primissime righe del giovane Mazzini ci sembra infondato un qualsiasi accostamento delle idealità giovanili del Mazzini ad un’ideologia che sulla base di una pura superstizione religiosa invade la “patria” altrui, quella dei palestinesi che in Palestina vivevano da sempre, non solo per scacciarli dai loro villaggi ancestrali, ma facendone strage e genocidio. Come ciò potesse avere l’avallo del Mazzini, è ciò che non ci stancheremo di verificare.

L’opera omnia di Giuseppe Mazzini. Homepage

Versione 1.1
Status: 11.5.09

Giuseppe Mazzini è un nome noto a chiunque in Italia abbia frequentato le scuole dell’obbligo. Il suo nome è associato al Risorgimento italiano, anzi è il Risorgimento italiano. Come sempre, tutto ciò che è scolastico viene penalizzato dalla costrizione e dalla mancanza di spontaneità ed autonomo interesse dello scolaro, i cui curricula sono spesso pesanti bardature che cadono quando viene meno la pressione pedagogica. L’idea di Risorgimento, di unificazione nazionale, che ci eravamo tutti formata aveva perlomeno chiare coordinate storiche e mentali: l’insieme di stati autonomi in cui era divisa la geografia politica della Penisola si uniscono per dare vita ad un unico grande stato che era l’Itale e l’Italia di tutti gli italiani, dal nord al sud. Non fu dunque una conquista coloniale di uno Stato a danno di altri stati, ma un convinto processo unitario, dove nessuna parte d’Italia restava mortificata. Dunque l’idea di Risorgimento era in primo luogo indigena, autoctona, costituente. Niente a che vedere con una qualsiasi idea o concetto di conquista, di oppressione, di sterminio, di pulizia etnica. Eppure, autorevolemente ed istitzionalmente, ci capita di vedere associato il nome di Mazzini e l’idea di Risorgimento ad un mostro politico che porta il nome di sionismo. Nella parte che abbiamo finora esplorato dell’Opera omnia di Mazzini trova conferma il nostro giudizio di assoluta arbitrarietà ed infondatezza dell’operazione che gruppi politici certamente illiberali pensano di poter impunemente condurre. L’opera di Mazzini consta di più di 100 volumi finora editi e non è certo agevole leggerli tutti. Avevano pensato di pubblicarli in rete con un nostro commento. Ma ci rendiamo conto che è un lavoro insostenibile per una sola persona. Optiamo per un progetto più limitato, all’interno di questo blog intitolato “Spigolature storiche”, dove l’interesse per una rivisitazione dell’opera di Giuseppe Mazzini è si occasionato da un intento polemico, ma non ne è condizionato e soprattutto ci consente di cogliere una più ampia opportunità di rivisitare, non più scolasticamente, l’intero Risorgimento italiano e il processo di unificazione politica dell’Italia dal primo impatto con la Rivoluzione francese fino ai giorni nostri. L’edizione a cui facciamo riferimento ed a cui attingiamo è l’Edizione nazionale degli “Scritti editi ed inediti”, iniziata nel 1906 e dopo un secolo giunta al 100° volume ed oltre. Supponiamo che per i testi di Mazzini non ci sia nessun copyright e siano testi di pubblico dominio. Ad ogni buon conto e per cautela soppriremo tutte le note e i commenti dei curatori dell’Edizione nazionali, sostituendoli, se ci parrà in caso con nostri propri commenti. Procederemo secondo un piano e questa sarà la pagina di unione dei numerosi post previsti. Post distinti ed autonomi saranno dedicati ai personaggi che certamente verranno fuori numerosi dalla diretta lettura del testo mazziniano.

Tutti gli Scritti
di
GIUSEPPE MAZZINI
come racolti e ordinati
nella
Edizione Nazionale,
iniziata nel 1906

Volume I
(Letteratura - Vol. I)
Imola, 1906


I.
Dell’amor patrio di Dante.
(1826 o 1827)

II.
La Fidanzata Ligure, romanzo di Carlo Varese.
(1828)

III.
Del romanzo in generale ed anche dei Promessi Sposi.

IV.
Poesia estemporanea.

V.
The fair of Perth (La jolie Fille de Perth)
Roman historique par Sir W. Scott
.

VI.
Trent’anni e la vita d’un giuocatore.

VII.
Carlo Botta, e i Romantici.

VIII.
Annali italiani delle scienze matematiche, fisiche e naturali.

IX.
La Battaglia di Benevento. Storia del secolo XIII, scritta da F. D. Guerrazzi.

X.
Prose di Salvatore Betti.

XI.

XII.

XIII.

XIV.

XV.

XVI.

XVII.

XVIII.

XIX.

XX.

XXI.

XXII.

XXIII.

XXIV.

XXV.

XXVI.