lunedì 11 maggio 2009

Giuseppe Mazzini: «Del romanzo in generale, ed anche dei Promessi Sposi d’Alessandro Manzoni» (I, 3 - 1828)

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III.
DEL ROMANZO IN GENERALE
ED ANCHE
DEI PROMESSI SPOSI
DI ALESSANDRO MANZONI.

Discorsi due - Milano, 1828, un picc. vol. (1)
(1) Opuscolo di Zajotti.
* Indicatore Genovese, nn. 5, 6 e 7 del 7, 14 e 21 giugno 1828.


I.

I precetti, e le teoriche in fatto di lettere riuscirono, e riusciranno difficili sempre, e spesso pericolose, specialmente, quando versino su’ lavori, ne’ quali hanno gran parte il cuore, e la fantasia. Ne’ secoli addietro si dettarono regole per lo più da chi mancava dell’uno a dell’altra, o giaceva sotto l’influenza d’opinioni esclusive. Però avvalorate da prevenzioni, e perpetuate dalla mediocrità fruttarono più ceppi al genio, che norme agli ingegni. – Ma quando si traggono insegnamenti dall’osservazione degli effetti, che producono su i più, che leggono i diversi modi di comporre, e si temperano i risultati severi dell’esperienza con ciò, che dettano il cuore, e il gusto dei tempi, l’uffizio dello scrittore didattico merita lode, come utilissimo; e lode sincera dee tributarsi all’autore dei due discorsi, che abbiamo sott’occhio.

Finché le nazioni oprano, finché grandi interessi pubblici assorbono gli affetti privati, il regno delle finzioni è negletto; però Grecia, e Roma non ebbero romanzieri, che tardi, e quando volgevano al decadimento; ove la vita dell’individuo sottentra a quella delle società, le illusioni si fan bisogno; meglio è dunque, anziché por contrasto ad un fatto, l’occuparsi di trarne il possibil vantaggio; e l’autore dei discorsi lo sa, e non rigetta il romanzo, come genere di letteratura vizioso, ma lo ammette come necessità, ch’ei deriva sagacemente dall’umana natura, e dalle abitudini della vita. Bensí, discorrendo del modo con cui possono esistere utilmente i romanzi, distingue assai bene il vero storico, o de’ fatti, dal vero morale, o degli affetti; e intorno al primo può concedersi molta libertà al romanziere, ma chi violasse il secondo, pingendo falsamente le passioni, o travisando le idee di vizio, e virtù, non avrebbe scusa: oggetto duplice, e son parole dell’Autore, hanno a cercare i romanzi, tenerci l’animo gentile, e puro dalle vili passioni, e risparmiarne, quanto co’ libri si può, i rigorosi avvertimenti dell’esperienza; e noi ne troveremmo un terzo nell’infiammarci ai nobili affetti, ove non derivasse dal primo.

Scende l’Autore alle due grandi classi di romanzi, una delle quali ci presenta l’uomo, qual dovrebb’essere, l’altra qual’è in effetto; e annovera gli scrittori, che le formano, giudicandone, per lo più rettamente; flagella i romanzi del genere da lui detto terribile, a modo d’esempio della Radcliffe, alla quale noi vediam porre a fianco con sorpresa il Goethe, la Staël, la Cottin, e con dolore un uomo, per cui l’Italia ebbe un romanzo, che molti tra’ suoi figli sanno a memoria. Ragiona dei romanzi politici, satirici, letterarj, filosofici, umoristici, d’educazione ecc., esamina le cagioni, per cui l’Italia mancò finora di romanzi, quelle che possono spronare i letterati ad empiere questo vuoto, e tutto ciò con copia d’osservazioni tratte dal cuore, con minutezza d’indagini sul merto de’ romanzieri, e con quel calore di stile, che accompagna la convinzione.

Non taceremo perciò, che, a nostro credere, l’Autore pagò tributo alle idee d’una scuola, che s’ostina nel proscrivere in letteratura quanto non ha faccia d’antico, rigettando il Romanzo storico, genere nato dalla tendenza del secolo, ch’esige istruzione anche da’ libri, a cui solea chiedersi prima un sorriso, o una lagrima.

La storia (che il più delle volte non è, che il registro delle azioni di pochi individui), quand’anche si scriva col metodo di Sismondi, presenta sempre un quadro incompiuto dell’epoca, che toglie a descrivere. Essa contempla i movimenti delle moltitudini, e nota i fatti generali, coordinandoli a segnare i progressi dei popoli, come i termini indicatori delle distanze; ma gli spazj intermedj sfuggono agli occhi nostri ne’ suoi lavori: essa fa campo d’osservazioni le capitali, ma le provincie, e le campagne non hanno in essa un interprete; noi troviam quest’interprete nel romanzo storico, il quale afferra tutti quei particolari, tutte quelle minuzie, che pur non sono inutili allo studio dell’umana razza, ci trascina a vivere in un dato secolo, e ce ne pinge sovranamente i costumi. Intanto la storia, che spesso allontana colla sua apparente secchezza, acquista ognor più favore, del che abbiamo esempio nell’Inghilterra, dove non fiorirono mai forse gli studi storici, come dopo l’introduzione del Romanzo storico. Noi esortiamo gli Italiani a consecrarsi con ardore a questo genere, e a trarne i materiali de’ tempi di mezzo, perché quei secoli, che la rea indifferenza degli scrittori dannò sí gran tempo le tenebre, sono fecondi, sovra tutti, di gravi insegnamenti, di memorie sublimi, e di esempli.

Ragioneremo in un altro articolo del secondo discorso.

II.

L’uffizio di critico, ch’è pure importantissimo in letteratura, s’è fatto da gran tempo oltremodo pericoloso in Italia; a molti, che s’abbattono in un libro di critica s’affaccia sul labbro, anche pria d’averlo letto, un sorriso, che dice: ecco l’opera d’un uomo, che incapace d’idee proprie, s’appaga nel biasimare le altrui. Né forse del tutto a torto, dacché troppo sovente fra noi – mercé le Accademie, i sistemi, le gare di municipio, e l’indole irritabile de’ Letterati – l’arte critica si stette in mano a’ pedanti, se pur non discese alla viltà dell’adulazione, o alla villania della satira. E notiam questo, perché più bella lode n’esca all’Autore dei due discorsi, il quale, scrivendo a lungo del romanzo d’Alessandro Manzoni, il fece con sí gentile animo, e tanto affetto del vero da insegnare ad ognuno, come la critica debba trattarsi, onde riesca non indegna dell’opera, ch’essa pone a disamina.

Noi avevamo in animo di presentare l’analisi di questo secondo discorso; ma le osservazioni sopra i Promessi Sposi son molte, e tali da non potersi ristringere senza infiacchirle. D’altra parte, ov’esse peccano per amor di sistema, il Manzoni è tal uomo, che non abbisogna della nostra difesa; e che varrebbe l’aggiungere il nostro suffragio, ove esse ci sembrano giuste? Stimiam dunque miglior partito il rimandare alla lettura del libro i giovani studiosi del bello; essi vi troveranno molti di que’pensieri, che niuna scuola rifiuta, perché sgorgati caldi dal cuore, che possiede solo, in mezzo al conflitto delle opinioni, un linguaggio universale, ed eterno. – Intanto, poiché l’autore, anche nel secondo discorso, non resta dal flagellare il genere del romanzo storico, opporremo di bel nuovo alle sue, poche nostre considerazioni.

Pessimo metodo per giudicare d’un genere di letteratura, pur ora nascente, è quello, che ne esamina i principj nell’applicazione, che ne han fatto pochi, e determinati scrittori; e mal si traggono argomenti a rovesciare le basi, che dar si vogliono ad una nuova foggia di comporre, dai vizj nei quali è caduto l’uno, o l’altro degli ingegni, che l’adottarono. Quando una novella letteratura è all’aurora, i suoi seguaci muovono d’ordinario passi mal fermi; come quelli, che hanno a fronte una via non per anco esplorata, e alle spalle il clamore dei molti, a’ quali torna conto lo starsi queti nei limiti delle antiche norme – e però chi si vale di quest’incertezza per trarne un’assoluta condanna del genere, opra come chi avesse dal carro di Trespi tolto argomento a bandir la tragedia. Tu sterpi, noi gli diremmo, un germoglio, che avrebbe forse, crescendo, fruttato utilmente ai nepoti. – Il Romanzo storico è pianta sbucciata appena in Italia, e già l’Autore dei due discorsi, prevalendosi della fama, che circonda il caro nome del Manzoni, attribuisce unicamente a vizio del genere il difetto d’interesse, e calore, ch’ei trova ne’ Promessi Sposi. Forse il difetto si esagera, e più d’una donna gentile, che ha palpitato sui casi dell’ingenua Lucia, e impallidito al ritratto dell’Innominato, accusa il giudicio di rigidezza; ma foss’anche vero, che trarne? L’ingegno del Manzoni è vastissimo; ma a nessuno è dato balzar fuori in un genere nuovo, perfetto, come Pallade dal capo di Giove. Fors’egli avrebbe dovuto scegliere i suoi personaggi ideali in una condizione, che ammettesse, se non più amore, modi almeno d’esprimerlo più caldi, e mezzi maggiori d’azione. Fors’anco il fine, ch’egli ebbe di rischiarare un oscuro periodo del secolo XVII si svela troppo apertamente ad ogni capitolo, sicché n’è riuscita piuttosto una storia resa dilettevole da romanzesche avventure innestatevi, che un Romanzo fatto utile dall’intreccio d’un quadro storico. Pure, che può derivarne? Tutto al più un dolore, che il Manzoni non abbia fatto, quant’ei poteva; ma nessuno potrà perciò persuadersi, che non possano in un Romanzo accoppiarsi esattezza storica, e vivo interesse di casi ideali; che ’l Waverley, l’Ivanoe, Kenilworth del Romanziere scozzese stanno a prova irrecusabile del contrario. – L’accusa data a’ Romanzi storici d’esser ridotti ad alterare la storia, o di farsi fredde compilazioni, vale per ciò, che riguarda i romanzieri, specialmente Francesi, che precedettero lo Scott. Essi ravvolgeano tutte le fila del racconto intorno ad un illustre individuo storico, e perciò difficilmente potean segnare una linea di separazione tra il vero, ed il falso. Ma il metodo tenuto dallo Scott ha tempra diversa; il suo romanzo è tessuto sopra vicende d’individui ideali, o memorati in tradizioni incertissime, ch’ei veste di caratteri, passioni, e abitudini consentanee al secolo, ch’ei s’è proposto di dipingere. Nel fondo del quadro appajono intanto alcuni personaggi storici di quell’epoca, i quali si vanno innestando nell’azione di mano in mano, che i casi dei personaggi ideali ne porgono il destro; per tal modo, situati, com’essi sono, in una luce secondaria, aggiungono importanza al lavoro senza inceppar la fantasia dell’autore coll’astringerlo alla severità della storia. Se ordita la trama del Romanzo in tal guisa, possono derivarne inconvenienti sí grandi da costituire un genere mostruoso, rendere il genio pigmeo, provocare una rovina irreparabile nelle storiche discipline, i difensori del vecchio castello cel dicano; ma intanto noi sappiamo, che nei molteplici casi della vita, la sorte de’ più umili tra i viventi è sovente annodata alle vicende d’individui collocati ad una somma distanza nella scala sociale, e destinati a non perir presso i posteri; che quindi il Romanzo storico trae le sue ispirazioni dalla Natura, unica sorgente del vero e del bello. –

III.

La lettera Q destò in Francia non son tre secoli ancora sí gran trambusto, che non ne eccitarono forse maggiore le mutazioni fatte al sistema planetario da Copernico, e Galileo. Godevasi essa tranquillamente, coll’autorità della Università di Parigi, il privilegio d’una pronunzia eguale affatto a quella della lettera K. Un grammatico, cervello bisbetico, che avea gridato, già non so quanto, contro il padre Aristotele, venne a turbar questa pace, e pretese, che due diversissime lettere non potevano in coscienza pronunziarsi nella stessa guisa – Mutar pronunzia a una lettera!!! non v’era modo di sopportarlo: se non mettevasi un argine alla innovazione, il mondo andava sossopra – il pomo della discordia era tratto: la gente letterata-erudita-filologa bandí la crociata addosso all’ardito; alcuni, che la novità seduceva, insorsero a favor del grammatico; l’Università gittò ad essi l’anatema; gli uni scrissero in-quarto; gli altri in-folio; i volumi furono molti; ma nessuno li lesse, e tutti gridarono più che mai. Ai libri tennero dietro le persecuzioni; i partigiani del Kamkam, e del Kiskis, che avevano il dado, si vendicarono dei quamquamisti colle confische – finché venne fuora un editto del Parlamento, che concedeva solennemente ad ognuno di pronunziare, come più volesse, la lettera Q, origine di tanta guerra.

Chi dicesse ora, che i due terzi almeno delle quistioni, che mossero in ogni tempo l’ire dei letterati, somigliano a questa del Q, e del K, s’aizzerebbe contro il grido di tutti; che l’umano orgoglio mal può ridursi alla trista confessione d’essersi pasciuto d’inezie. Pure, tal sentenza conterrebbe una sorgente di consolazione per noi, e annunzierebbe più rispetto pei destini dell’uomo, che non gli elogi pomposi co’ quali tuttodí si blandisce l’umana indolenza. Se le immense contese, che ogni secolo trascinò seco quaggiù, poggiaron sovr’altro, che sovra parole, è forza il dire, che noi camminiamo a tentone, erranti qua, e là senza luce, senza speme di luce; – è forza l’esclamare con duolo, che nulla è di certo, che la verità è chimera, e che noi dobbiam rassegnarci ad una guerra perpetua di pareri, e sistemi, che si divorin l’un l’altro, come gli armati di Cadmo. Ma se le nostre sono per lo più dispute di parole, possiamo lusingarci, che un giorno – quando il vero valor de’ vocaboli sia più esattamente determinato, e i letterati non s’ostinino nel crearsi un fantasma in ogni vapore, che rompe la noja d’un cielo uniforme, – le inezie cessino, e tutti s’annodino quetamente intorno a pochi fermi principj, desunti dalla natura, e dal cuore. Comunque sia, quel giorno è lontano: e finora s’aguzzano gl’intelletti a combattere un nome spesso vuoto d’idea, e a guerreggiare una nuova opinione, che, antica, s’abbraccerebbe. Cosí – ed eccoci all’applicazione – si rifiuta l’accozzamento dell’ideale, e del vero storico nei Romanzi, mentre da più secoli s’è tollerato, e applaudito nelle cose drammatiche. – Cosí lo stesso Autore dei due discorsi, riduce, senza avvedersene, la contesa del romanzo storico ad una contesa di soli nomi.

Il romanzo storico è, secondo lui, di due specie; l’una dei fatti, e dei personaggi; l’altra dei costumi, e dei tempi; questa seconda costituisce il romanzo, ch’egli chiama col nome di descrittivo, ed egli l’approva, pago di rigettare la prima.

Ora scegliete, noi gli diremo, un dato secolo con animo di riprodurne in un romanzo l’indole, le passioni, e le costumanze. Voi comincerete da uno studio profondo dei monumenti di quel secolo, e ne attingerete i lineamenti diversi, che distingueranno i caratteri, e i personaggi ideali da voi posti in campo a ritrarci in essi la fisonomia di quell’epoca. Trarrete dunque inevitabilmente questi dati e questa fisonomia da ciò, che vi narran le storie degli individui, ch’ebbero vita, e fama a quei tempi. – Su qual norma verrete intanto giudicato da chi leggerà il vostro libro? Sul vero storico desunto dalle narrazioni, e dalle memorie. Se i vostri personaggi penseranno, diranno, opreranno come si pensava, si dicea, s’operava in quel secolo, se il loro cuore batterà rapido sotto l’impulso delle passioni, che in allora regnavano, s’essi insomma si mostreranno veramente storici, voi avrete tócco il sommo dell’arte. Ma se un solo fatto straniero allo spirito, e alle idee dell’età, che pingete, verrà a rompere l’illusione, che trascina la fantasia più secoli addietro, in mezzo ad una generazione d’uomini spenta, avrete perduto l’opera vostra. Chi non vede la conseguenza? – Astretto ad una legge d’esattezza sí rigida, se non vorrete, che i vostri caratteri ideali pecchino contro d’essa, sarete costretto, vostro malgrado, a riprodurre i personaggi storici di quel secolo; ciò, che voi crederete l’opera della fantasia sarà quella della memoria, e avrete delineati uomini, ch’ebbero un’esistenza reale senz’altro cangiamento, che la sostituzione d’un nome oscuro ad un noto. – La contesa mossa contro il romanzo storico è dunque contesa di nomi.

Ma un tal lavoro diventa inutile: abbiamo storie – ... poche a dir vero; bensí vasti materiali di storie, e abbondanza di cronache. Ma quanti amano dissotterrarle? Quale vantaggio ne ritraggono i più? e perché vorrem noi negare un tributo di riconoscenza a chi ci trasfonde in un romanzo, commisto a’ più bei fiori del sentimento, ciò, che nessuno vorrebbe rintracciare per venti cronache nojose, e scure, come gli angoli degli scaffali ove giacciono?

Quando alla varietà dei modi di comporre, non si connette una notabile diversità di danno, o vantaggio, le controversie riescono inutili, perché il secolo, come l’editto del Parlamento, concede ad ognuno di scegliere tra l’un genere, e l’altro quello, a cui lo sprona il suo genio; e però, quand’anche nessun utile positivo derivasse dal romanzo storico, la nostra Italia non si lascerebbe indurre dalle paure di pochi ipocondriaci in letteratura a rifiutar la cittadinanza ad un genere, che lo Scott, il Cooper, il Van-der-Velde, e lo Zschokke hanno ormai fatto cittadino d’Europa: ma i vantaggi del romanzo storico non sono chimerici; essi stanno nel porgere coll’autorità di storici nomi una guarentigia maggiore della verità delle pitture, che si danno al pubblico – stanno nell’empiere una lacuna, che la Storia è forzata dal suo istituto a lasciare – e stanno nel favellare ad una gente de’ suoi padri, delle sue grandi memorie, delle sue virtù, de’ suoi vizj, delle sue sciagure....

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